Chi parte per la migrazione fa una scommessa con sé stesso: quella di “farcela”.
“Farcela”, per l’italiano e il lucano tra Otto e Novecento, non è solo una questione di “fare i soldi”. Certamente questo è un aspetto dominante, ma non è il solo.
“Farcela” è il riscatto da una condizione di miseria che è sentita come una ingiusta condanna, come un lascito – quasi medievale – di una condizione di servitù da cui non si può sfuggire.
Così, pure nella durezza e talvolta nell’abbruttimento che i lavori e la vita, spesso pesantissima, nei luoghi di destinazione comporta, nell’emigrante resta la volontà fermissima di confermare la sua immagine, il rito rassicurante del dimostrare di esserci riuscito.
La fotografia è lo specchio fedele di quella immagine che si vuole dare agli altri, soprattutto alla propria famiglia che è rimasta a casa, di aver raggiunto una posizione, uno status.
Ma è anche una rassicurazione soprattutto per sé stessi, di fronte alla difficoltà, alle incertezze e ai dubbi che assalgono l’emigrato ogni volta che, finita la giornata, si ritrova solo davanti allo specchio.
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